La religiosa africana racconta come il suo sogno di diventare “missionaria eroica, ammirata da tutti”, si infranse improvvisamente di fronte ai pregiudizi sull’Africa dei non africani. La scoperta della propria vulnerabilità è diventata però per lei opportunità per trovare la vera vocazione missionaria che si realizza al di fuori delle logiche di potere e di denaro, per scendere in profondità nei dolori della gente a cui la missione è rivolta.

Suor Anne Falola è una suora missionaria africana della congregazione di Nostra Signora degli Apostoli. È laureata in Counselling e Spiritualità cristiana. La sua attività si esprime in diversi modi: insegnamento, progetti pastorali e sociali, dialogo religioso e interreligioso e animazione missionaria in Nigeria, Argentina, e nel Regno Unito. Al momento, è consigliera generale della sua congregazione e risiede a Roma. Durante la plenaria 2022 dell’Unione Internazionale Superiore Generali, UISG, la religiosa ha tenuto un discorso di cui vi proponiamo un estratto:

Accettando la nostra vulnerabilità ci avviciniamo agli altri

La vulnerabilità è una qualità fondamentale di ogni autentica missione cristiana, poiché siamo chiamate a seguire Cristo, “il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo…. (Fil. 2:6-8). La Kenosis di Cristo rende la vulnerabilità un modo di essere missionari, nonché un importante strumento della missione. La chiamata di Papa Francesco al processo sinodale è in ultima analisi una rinnovata chiamata alla missione, con la rinuncia a partire dalla posizione finora occupata di potere e autorità. (…) Questo obiettivo non può essere raggiunto, se non si accetta e si accoglie la propria vulnerabilità. Per noi, in quanto missionarie, la vulnerabilità è un bene prezioso per la missione, piuttosto che un onere di cui farci carico poiché ci permette di accedere alla realtà umana in maggiore profondità, attraverso la nostra partecipazione a quanto è debole, soggiogato e povero. Quando abbracciamo la nostra vulnerabilità, ci avviciniamo a chi ha bisogno di luce e liberazione.

La missione deve liberarsi da ogni forma di potere

L’Africa viene talvolta definita come il “giardino della Chiesa nel XX secolo”, per via dell’affascinante affermazione della Chiesa stessa all’interno del continente africano…. Da una base di circa 4 milioni di fedeli professanti il cristianesimo nel 1900, la comunità cristiana africana si è sviluppata fino a contare, nell’anno 2000, 300 milioni di fedeli. Una delle implicazioni di questo fenomeno fa sì che non vi siano più Paesi che esclusivamente accolgono le missioni o esclusivamente le inviano. (…) Questo cambiamento coinvolge anche le dinamiche di potere. La geografia della missione è cambiata! Grazie a Dio, la missione cristiana è ora scissa dal suo legame storico con la colonizzazione o l’occidentalizzazione. Mi è stato chiesto spesso perché gli africani dovrebbero abbracciare missioni che li portino fuori dal proprio continente, vista l’enorme quantità di problemi che lo affliggono. A questa domanda, rispondo che la chiamata alla missione NON è una gara di auto-sufficienza, a cui solo coloro che non hanno problemi o sono forti possono rispondere. Questa tendenza esclusivista rappresenta di fatto un problema, poiché associa la missione al potere, all’influenza politica, alla ricchezza materiale, alla colonizzazione e al dominio. Come missionaria africana, mi vedo chiamata a modificare questa narrativa, a portare novità, semplicità ed energia, libera da qualunque potere di stampo economico o politico….

Suor Anne Falola collabora alla costruzione di rifugi per gli sfollati ad Abuja, in Nigeria

L’Africa ha molto da offrire, necessario abbattere i pregiudizi

Sebbene la vulnerabilità sia di vitale importanza per la missione, rimane una questione non facile. I missionari con cui sono cresciuta da bambina non erano considerati uomini o donne vulnerabili. La mia vocazione missionaria si ispirava ai missionari irlandesi che, nel Paese dove sono nata, divennero pionieri nei settori dell’istruzione, della salute, delle frontiere pastorali e sociali; erano amati e profondamente rispettati. Tuttavia, il mio sogno di diventare una missionaria eroica, ammirata da tutti, si è infranto improvvisamente quando, nel 1994, mi sono trovata fuori dall’Africa e ho realizzato che non venivo accolta come missionaria, ma piuttosto ero considerata come una lavoratrice migrante, in cerca di una vita migliore. Il mio desiderio di altruismo e sacrificio totale ne uscì scosso quando compresi con stupore che, secondo l’opinione comune, l’Africa avrebbe ben poco da offrire. Mi resi conto che per molti, al di fuori dell’Africa, questo continente era unicamente associato a povertà, guerre, violenza, scompiglio, vita allo stadio primitivo, malattie, conflitti etnici, disordini politici e corruzione. Malgrado queste realtà non possano essere negate, l’Africa è anche una terra di promessa, grazie alla sua vita così vibrante, la sua resilienza, gioventù, l’amore per la comunità, l’ospitalità, la generosità e la religiosità.

Suor Anne visita la comunità cristiana di base nel barrio popolare della periferia di Cordoba, in Argentina

Costruire comunione all’interno della diversità

Ho imparato ad abbracciare questa vulnerabilità che i pregiudizi mi hanno imposto, pur facendo umilmente mia la dignità necessaria per modificare questa narrativa. Siamo tutti vittime della sindrome del racconto esclusivo, che si basa sui pregiudizi che gli altri nutrono nei nostri confronti. Tutti portiamo sulle nostre spalle il fardello delle nostre identità e questo si rende più evidente quando ci allontaniamo dalle nostre case e diventiamo oggetto del giudizio degli altri. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ci ha offerto questa descrizione meravigliosa: “Non è che il racconto esclusivo non sia vero, ma il punto è che non è l’unico racconto esistente”. (…) Come missionari, siamo chiamati a costruire comunione all’interno di questa diversità, abbracciando la sua bellezza e fragilità. Vorrei sfidare me stessa e ciascuna di noi ad abbracciare la propria vulnerabilità. La mia vulnerabilità di donna all’interno di una società e di una Chiesa patriarcale; di africana in un mondo di lotte globali per il potere; di religiosa in un mondo caratterizzato da una crescente indifferenza e intolleranza religiosa; di missionaria in un mondo xenofobo, chiamata a rivolgermi alle periferie di un mondo in cui solo il centro conta. Questo significa per me abbracciare la vulnerabilità dall’alto e dal basso.


Fonte: Vatican News